giovedì 16 giugno 2016

Still life

Mentre in pittura il termine inglese still life si può tradurre in italiano con "natura morta" cioè una raffigurazione pittorica di oggetti inanimati, in fotografia il termine descrive la tecnica fotografica di qualsiasi oggetto inanimato.

La fotografia still life può essere praticata all’esterno così come in studio, e il fotografo pubblicitario può riprendere gli oggetti così come li trova, isolandoli dal contesto, oppure può creare personalmente delle composizioni.

Tuttavia sempre più si tende ad accostare la fotografia di particolari inanimati in esterna alla street, e a limitare l’accezione di still life solo alla fotografia di oggetti effettuata in studio, con il pieno controllo sulla luce attraverso lampade o flash, e con lo scopo di raccontare le caratteristiche dell’oggetto ripreso, non tanto in maniera oggettiva (a meno che le foto non servano per un catalogo commerciale), ma attraverso l’interpretazione del fotografo.

Il risultato da raggiungere in una foto still-life di solito non è complicato. In genere lo scopo è quello di creare un documento che metta in risalto gli attributi più importanti dell'oggetto e sia piacevole da vedersi, oppure di creare una foto artistica con l'aggiunta di una buona dose di fantasia. Con obiettivi così semplici come questi, l'esperienza necessaria è più limitata rispetto alla fotografia in generale.

Qualunque sia, la luce principale è quella che determina l’effetto complessivo dell’immagine, ad essa tutte le altre luci si devono rapportare. Non è detto che sia la luce più potente, ma sicuramente è la più importante, a essa viene affidato il compito d’illuminare la parte più interessante del soggetto. L’effetto creato dalle luci artificiali deve assomigliare il più possibile alla percezione che noi abbiamo della luce naturale.

L’illuminazione del sole proviene sempre dall’alto, e proietta la sua ombra nella parte inferiore del soggetto, quindi un’illuminazione alta, laterale, a 45° rispetto all’asse verticale del soggetto, verrà sempre percepita dall’occhio come naturale.

Se per fotografare un oggetto si utilizza il flash incorporato il risultato sarà pessimo sotto ambedue questi punti di vista. Lo stesso avviene riprendendo un oggetto alla luce del sole. Occorrerebbe attendere che il cielo sia uniformemente nuvoloso in quanto le nuvole funzionano da diffusore della luce solare. Ma non sempre si può attendere che le condizioni di luce esterne siano perfette. Per fotografare in interno vengono utilizzate delle apposite attrezzature per la diffusione della luce.

martedì 14 giugno 2016

La solarizzazione

La solarizzazione è un procedimento usato in fotografia che si può ottenere producendo un' immagine semi negativa su una carta di stampa. Per effetto di una reazione chimica dell'argento che si trova sulla parte sensibile della pellicola, se l'immagine viene esposta più a lungo rispetto al necessario, alcune aree sul negativo si scuriscono, invece di schiarirsi, apparendo nere sulla carta da stampa. In tali aree si determina un'inversione dal positivo al negativo.

La solarizzazione è praticamente impossibile da ottenere con i materiali sensibili attuali, salvo in situazioni particolari, come ad esempio lunghe esposizioni notturne di zone scarsamente illuminate, ma con alcuni punti luminosissimi (ad esempio lampioni stradali).

Nella fotografia tradizionale la vera solarizzazione è praticamente impossibile da ottenere coi materiali sensibili attuali. Coi programmi di foto-ritocco si può invece simularla facilmente, anche nel caso di immagini a colori, semplicemente facendo assumere una pendenza negativa alla curva di trasferimento da immagine originale a immagine ritoccata, nella zona delle alte luci.

Il secondo fenomeno chiamato solarizzazione, anzi quello a cui normalmente ci si riferisce quando si parla di solarizzazione, è in realtà, più propriamente, la "pseudo-solarizzazione" o "effetto Sabattier". si ottiene in camera oscura con il seguente procedimento:
  • esposizione della carta fotografica o della pellicola negativa
  • sviluppo parziale fino alla comparsa di una parte dell'immagine
  • seconda esposizione, ottenuta illuminando la carta o il negativo durante lo sviluppo
  • completamento dello sviluppo, avendo l'accortezza di non muovere la carta nel bagno come si fa normalmente, oppure muovendola lentamente per ottenere particolati effetti di scia. In questa fase appare la (pseudo)solarizzazione: le parti già sviluppate (le più scure) infatti agiscono come un filtro protettivo, mentre le altre, colpite dalla luce, subiscono un processo di inversione tonale (e sul negativo appariranno positive). Inoltre, fra le zone di diversa densità compare una sottile linea grigia, detta linea di Mackie, dovuta all'esaurimento locale dello sviluppo
  • completamento del processo con fissaggio, lavaggio ed asciugatura.
Nella fotografia tradizionale questo metodo è principalmente usato con immagini in bianco e nero. Si ottengono risultati diversi a seconda che si usino pellicole negative per fotografia tradizionale, carte fotografiche o pellicole ad alto contrasto per arti grafiche.

È anche possibile produrre una pseudo-solarizzazione con materiale a colori (negativi, carte, diapositive), usando luce bianca o colorata durante la seconda esposizione.

Questa tecnica può anche essere utilizzata da un fotografo pubblicitario per dare un tocco particolare ad alcune delle immagini scattate.

lunedì 13 giugno 2016

Il sistema zonale

Il sistema zonale è stato portato a conoscenza del grande pubblico nel lontano 1948, attraverso la pubblicazione del suo secondo libro  di Ansel Adams intitolato: “The negative”.

Tale sistema è stato elaborato espressamente per la stampa in bianconero delle  pellicole negative piane (oggetto di questa prima parte), ma rappresenta un valido strumento dal punto di vista didattico indipendentemente dall'utilizzo dell'analogico o del digitale. Si tratta di una tecnica utilizzata in fotografia per determinare l'esposizione e il procedimento di sviluppo ottimali per rendere l'intera gamma delle sfumature tonali di una determinata scena.

Il metodo, bilanciando esposizione e sviluppo della pellicola, si propone di riuscire a trasferire sulla stampa finale, la massima quantità di toni e dettagli presenti nella scena ripresa.

Il sistema zonale divide la scala tonale presente in una stampa in 11 zone distinte, da O a X:



Zona O – Nero totale nella stampa. Es.: stanza completamente buia.

Zona I – Molto vicino al nero, non ci sono dettagli. Es.: tessuto nero senza trama, tipo velluto.

Zona II – Grigio-nero, parti più scure in cui si cominciano a intravedere i dettagli. Es.: parti interne di un cespuglio o un albero in ombra.

Zona III – Grigio molto scuro con dettagli ben distinguibili, rappresenta la zona di riferimento dove dovranno essere collocati i dettagli in ombra. Es.: parti scure in ombra, come la corteccia di un albero.

Zona IV – Grigio medio scuro con ottimi dettagli. Es.: fogliame scuro, parti della pelle in ombra, ombre di un paesaggio.

Zona V – Grigio medio (grigio Kodak con riflettanza 18%). Rappresenta la zona centrale di riferimento per l’esposizione. Es.: cielo sereno al nord, carnagione scura, pietra grigia.

Zona VI – Grigio medio-chiaro. Es.: carnagione caucasica, sabbia, ombre sul paesaggi innevati al sole.

Zona VII – Grigio molto chiaro con dettagli ancora sufficienti. Es.: pelle e capelli molto chiari, sabbia e rocce bianche.

Zona VIII – Quasi bianco: parte dell’immagine più chiara in cui si intravedono alcuni dettagli. Es.: tessuto bianco lucido, neve con cielo nuvoloso, riflessi su pelle molto chiara.

Zona IX – Quasi bianco puro senza particolari visibili. Es.: riflessi su superfici bianche o metalliche.

Zona X – Bianco puro, colore della carta su cui si stampa. Es.: fonti di luce diretta: sole, fari, ecc.

domenica 12 giugno 2016

Il bracketing

La tecnica del bracketing consiste nell’effettuare una serie di scatti variando i parametri dell’esposizione. In genere si eseguono tre scatti “a forcella”: uno per il valore che l’esposimetro suggerisce come corretto, uno in sottoesposizione, l’altro in sovraesposizione.

Il bracketing in pratica prevede l'esecuzione di almeno 3 foto separate tra loro da una forcella di sovra e sottoesposizione (tempo più lungo e più corto del previsto) che permette di "centrare" la foto perfetta. La tecnica è diffusissima nelle reflex a pellicola poiché offre un modo per cautelarsi contro errori di esposizione a fronte di un po' di spreco di pellicola.

Nel mondo digitale non viene usata granché visto che esiste modo per controllare immediatamente la foto appena scattata e decidere se rifarla. Tuttavia non sempre è possibile rifare una foto e talvolta ciò che vediamo soddisfacente sul display della fotocamera si rivela insoddisfacente una volta proiettato su uno schermo più ampio, come quello di un PC, oppure stampato. Di conseguenza la presenza di un'esposizione variata a forcella costituisce una garanzia anche nel mondo digitale.

Oltre a quello relativo all'esposizione, ci sono altri tipi di bracketing.

  • Il bracketing del fuoco è utile in situazioni con profondità di campo limitata, come una macrofotografia. Con questo tipo di bracketing si può avere una serie di fotografie con diverso piano focale per poi scegliere la foto che ha il fuoco migliore, o combinarle in camera oscura digitale (tramite software fotoritocco), per aumentare la profondità di campo, sia con sovrapposizioni e tagli manuali, sia con appositi software che eseguono questi compiti automaticamente.
  • Il bracketing sul bilanciamento del bianco, che si può trovare unicamente nella fotografia digitale, permette di avere più foto dello stesso soggetto con punti del bianco differenti, per poter scegliere quella con i colori più realistici.
  • Il bracketing del flash è un modo di lavorare con i flash elettronici. Vengono scattate varie foto con una potenza del flash variabile da scatto a scatto.

A cosa serve tale tecnica? A trovare l’esposizione ottimale anche in situazioni difficili che possono ingannare l’esposimetro, oppure quando si è in dubbio sul giusto valore dell’esposizione o su come interpretare “fotograficamente” una scena.

La tecnica Raw

La tecnica fotografica Raw consiste in un particolare metodo di memorizzazione dei dati descrittori di un'immagine. Viene usata per non avere perdite di qualità della registrazione su un qualsiasi supporto di memoria.

RAW è un termine inglese che significa "grezzo"; i dati così come escono dal sensore vengono salvati in un file senza subire trattamenti  che possono invece essere applicati in fase di postproduzione, ampliando notevolmente le possibilità creative del fotografo.

La scrittura e lettura dei file in formato Raw è decisamente più lenta rispetto a quella in formato JPEG a causa della maggiore quantità di dati da muovere (in lettura o in scrittura). Questo rende più difficoltosa l'archiviazione dei file e la loro successiva visione.

Il suo sfruttamento richiede il trasferimento di una maggiore quantità di dati sui supporti di memoria (con il conseguente allungamento del tempo di memorizzazione), inoltre comporta l'occupazione di uno spazio maggiore di memoria. Ma tale limite non rappresenta un grosso problema visto il continuo incremento di velocità di scrittura delle schede di memoria, ed il loro costo specifico per megabyte che progressivamente diminuisce.

Per elaborare un file Raw occorre un software adeguato che possa almeno compiere le operazioni che normalmente compie il processore d'immagine della fotocamera e cioè:

  • applicare l'algoritmo di demosaicizzazione per calcolare le due componenti RGB per ogni pixel non direttamente lette dai singoli elementi unitari fotosensibili del sensore;
  • formare il file grafico con i tre canali RGB campionati a 8, 10, 12, 14 o 16 bit come previsto dall'hardware della fotocamera (convertitore A/D);
  • apportare modifiche alle caratteristiche principali dell'immagine (bilanciamento del bianco, esposizione, contrasto, regolazione selettiva dei colori, correzione della gamma dinamica;
  • convertire e salvare il file Raw in vari formati: non compresso (BMP, TIFF a 8 bit/canale, TIFF a 16 bit/canale, GIF, ecc); oppure compresso con metodi di tipo Lossy (.JPG, .JP2, ecc); oppure ancora compresso di tipo lossless (TIFF compresso .LZW, .PNG, ecc) in modo che il file sia leggibile dai normali software di trattamento delle immagini.

Talvolta però questi software fanno molto di più, ovvero:

  • apportano altre modifiche all'immagine, come la correzione della aberrazione cromatica e delle aberrazioni sferiche dovute alla geometria dell'ottica;
  • rimuovono l'effetto di vignettatura dell'immagine;
  • riducono il rumore elettronico nelle immagini riprese con scarsa illuminazione;
  • applicano filtri per il miglioramento del dettaglio dell'immagine e migliorano la nitidezza apparente;
  • eliminano le interferenze che si generano in alcuni sensori in certe condizioni di ripresa.